Autobiografia clitoridea by Teresa Cinque

Autobiografia clitoridea by Teresa Cinque

autore:Teresa Cinque [Cinque, Teresa]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Longanesi


L’infanzia tende a non voler finire

(soprattutto quando va male)

Dopo cinque o sei giorni proviamo a tornare nell’appartamento per prendere dei cambi, le mutande, cose così. Ci muoviamo paurose e circospette senza sapere cosa aspettarci.

Quello che ci aspetta è, salite le scale esterne, intravedere dalla finestra della cucina una ragazza in accappatoio (quello di mia madre), con un asciugamano in testa, appoggiata al tavolino. Sembra a suo agio, beve un bicchier d’acqua.

Una coltellata mi avrebbe fatto meno male.

La famiglia è quella cosa che ti lasci alle spalle, se puoi, quando cresci.

Ma l’incidente sembrava voler rimpastare tutto quanto, mi aveva immersa di nuovo in dinamiche di mamma e di babbo, di tradimento e gelosia, di ingiustizia e dolore gratuiti, tardivi, estremi ed estenuanti, come una piovra che riesca a riagguantarti con un lungo tentacolo quando ormai avevi raggiunto la spiaggia.

La mia spiaggia era Livio, l’università, era avere vent’anni e provare a vivere.

La sessualità di mio padre si era svalvolata come tutto il resto, ma come tutto il resto non era andata così tanto fuori dai binari da permetterti di separare interiormente le due persone. Era ancora lui e quella era probabilmente un’apprendista scultrice straniera o una studentessa dell’Accademia.

Mia madre mi raccontò che quando abitavamo ancora a casa aveva pretese notturne, dopo giornate di guerra e aggressioni verbali, che la lasciavano sbigottita e costernata.

Una notte la ricattò: o facciamo sesso o vado a cercare altrove. Dopodiché uscì con la macchina per tornare all’alba.

Alcuni anni dopo, davanti al caminetto acceso a una festa, una ragazza svizzera che era stata sua allieva mi parlò di mio padre in Accademia in questi termini: «Non avrei voluto trovarmi sola con lui in una stanza». Ancora devo capire che senso possa avere, per una giovane artista svizzera, dire a una figlia ventiseienne una cosa così riguardo suo padre. L’ho odiata a lungo, anche se non era colpa sua.

L’estate dell’incidente io lavoravo in una libreria del Forte. Nonostante il caos in cui ero piombata non me la sentii di mollarli a stagione iniziata. E poi quel lavoro poteva essere un aggancio con una vita un po’ normale.

Arrivavo in negozio come atterrando da un altro pianeta. Qui regnavano la leggerezza e lo svago. Ricconi milanesi e fiorentini in abbigliamento minimo (e griffatissimo) vagavano tra i libri in cerca di un intrattenimento da portarsi in spiaggia dove, pagando cifre astronomiche per l’affitto stagionale di tenda e cabina, avrebbero trovato tutte le comodità di casa traslate sulla sabbia. I piedi nudi, gli aperitivi al tramonto, le passeggiate sulla riva.

Emanuele Giannelli, figlio del proprietario, aveva trent’anni e a me pareva un uomo fatto. Anche il suo amico, coetaneo e pittore, mi faceva quell’effetto. C’era una specie di corteggiamento muto intorno a me, da parte di questi uomini, che erano pure belli, e mi mettevano paura. Credo di aver avuto paura un po’ di tutto in quel periodo, vivevo in una condizione di allerta costante.

Un giorno, avvicinandomisi da dietro in silenzio, l’amico pittore mi sussurrò all’orecchio all’improvviso, tipo scherzo, «Facciamo l’amore!» a voce bassa e fonda.



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